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“ARTEMISIA”

Aggiornamento: 20 mag 2021

In un’epoca in cui le figlie appartengono al padre, in cui l’arte è questione di vita o di morte, in cui il pennello e il pugnale sono stretti dalle stesse mani, entrambi sarebbero arrivati ad uccidere pur di dimostrare la superiorità del loro talento.



(Spettacolo teatrale, tratto dal libro di Alexandra Lapierre “Artemisia”.

Produzione Carciofirossi)


La cosa che più colpisce, rispetto al libro e all’autrice, è che anch’essa Alessandra Lapierre è figlia d’arte; figlia di un padre famoso; Dominique Lapierre, lo scrittore della “La Città della Gioia”; come Artemisia, anch’essa è figlia della fama:

“Come riusciranno a redimersi ?!”


L’identificazione con la protagonista del romanzo è tangibile, la scrittura come la pittura di Artemisia è sensuale, carnale e per certi versi diviene evidente l’autobiograficità; questo, da al romanzo una dimensione universale, offrendo alla drammaturgia di svincolarsi dal soggettivo per una dimensione più ampia, slegata dalla mera realtà biografica della protagonista.


“Attraverso l’intima partecipazione al racconto..”

“Il doppio porta alla triade, dalla dualità al tutto”.


“Un’ambiguità è una contiguità, che il tempo non “sorveglia”, dove chi dell’una è l’altra, si confonde; e chi dell’altra ha trovato l’Una, è un manifesto di meraviglia”


Eccone l’intento della riduzione teatrale tratta dal libro “Artemisia”: Delineare le tappe di un percorso esistenziale che porta la “protagonista” oltre la meta. Il femminile che assurge alla grazia dell’Essere, trovando se stessa nell’Altro.



Regia e adattamento drammaturgico:

Claudio Cerra


Musiche a cura di:

Roberto Uberti

Note di regia per la messa in scena teatrale di “Artemisia”


Per prima cosa devo sottolineare che lo spettacolo di Produzione Carciofirossi dal titolo “Artemisia”, è stato tratto da un adattamento drammaturgico del libro di Alexangra Lapierre “Artemisia”, Francia, Editions Robert Laffont, S.A. Paris 1998; Italia Arnoldo Mondadori Editore S.p.A. Milano 1999.


Lo spettacolo teatrale inizia con un prologo:

La scena è completamente buia.

Dopo alcuni secondi viene illuminato un cubo nero, al centro della scena, una croce bianca incisa, sulla sua facciata, spicca; poggiata sopra il cubo una clessidra, la sabbia scende, scandendo il tempo; rumori e voci in lontananza ampliano la dimensione scenografica.


Dal Libro di Alexandra Lapierre:


“La prua di una galera fende la nebbia del Tamigi. L’imbarcazione accosta pesantemente

alla riva. Dalla nebbia emerge una figura solitaria ed eretta di una donna.

L’ampio mantello la sottrae agli sguardi. Chi piange sotto i suoi veli?

Il marito? L’amante?


Una voce femminile fuori campo:


In un’epoca in cui le figlie appartengono al padre, in cui l’arte è questione di vita o di morte, in cui il pennello e il pugnale sono stretti dalle stesse mani, entrambi sarebbero arrivati ad uccidere pur di dimostrare la superiorità del loro talento.

Entrambi hanno fatto molto più che sognare l’uno la scomparsa dell’altro.


Accompagnando il padre all’estrema dimora, completando l’opera di Orazio, Artemisia sa di chiudere il cerchio del destino. Potrà certo continuare a dipingere, ma l’arte e la vita le stanno oramai alle spalle.

La sua “avventura più grande” si conclude qui, a Londra, in questo mese di febbraio del 1639”


Il prologo, dichiara nel suo incipit l’archetipo, il paradigma a cui tutta l’opera fa riferimento; quel fondamento della storia, che segna e determina il futuro della protagonista. Quell’originaria determinazione che nella donna si genera dal peculiare rapporto con il padre.

Ogni destino è tracciato, in quel passato in cui siamo in balia, dell’altro. Solo nella consapevolezza del proprio trascorso, è possibile variarne la traiettoria; nell’inconsapevolezza, vi è solo l’oracolo del destino, l’inesorabilità del fato d’ogni figlia; di tutti i figli.


Successivamente, lo spettacolo, è stato suddiviso in tre parti, dove la prima, di queste, ha come titolo: “La Vergine”

Nel suo primo quadro viene messo in scena il tragico dramma della giovane Beatrice Cenci.

Evento storicamente emblematico e nello stesso tempo metafora tragica che proietta la spettatrice/ore immediatamente dentro al dramma, rappresentato, il vissuto della protagonista. In quel primo evento, in quella prima scelta, è palesato nella sua forma funesta, il nodo “oscuro” e determinante con cui il femminile deve confrontarsi nel suo esistere, nel suo essere; a cui non può sfuggire, se vuole raggiungere una sua vera individuazione; il suo originario centro spirituale.


Gli eventi emblematici di Beatrice Cenci, quindi, si palesano subito come modello esistenziale e tragico, connaturato al mondo femminile. Un tema atroce incastonato alla dimensione del sé, alla sua rovina o alla sua determinazione.


Piazza di Ponte Sant’Angelo, 11 settembre 1599

Di fronte al patibolo, un sole bianco arroventava fino all’incandescenza la cupola della basilica vaticana.

Si trattava dello sterminio di una delle più illustri famiglie romane.

Quella dei Cenci. Il patrizio Francesco Cenci era stato assassinato a colpi di martello dai tre figli e dalla seconda moglie. L’ispiratrice del crimine era stata la stessa figlia: Beatrice Cenci.

A sedici anni era stata rinchiusa in una fortezza, picchiata e violentata dal padre.

Uccidendolo, non aveva fatto altro che vendicare il proprio onore”.

In quella prima scena si incrociano le vie e le vite di tutti i protagonisti della storia, Beatrice Cenci, Artemisia, Orazio Gentileschi, Caravaggio - il pittore che influenzerà la pittura dei nostri protagonisti - e il famigerato amico del padre: Agostino Tassi.

Di fronte a quella Tragedia, al supplizio sul patibolo di quella giovane innocente si innestano, quindi, tutte le storie, persino quella dello spettatore/rice.

Questo, naturalmente, nella dimensione personale e soggettiva, quella capacità individuale e addestrata, capace, in grado di mettere in azione le immagini; l’Arte dell’immaginazione.

Il teatro, come ogni forma artistica istituzionalizzata è sempre stata una forma del potere, un’entità pedagogico-formativa del controllo, e nelle sue varie epoche solo gli individui veramente liberi sono stati capaci di trascenderne il vincolo, questo morso.


Proseguendo, sulle stesse tracce di cui l’autrice del libro ha costellato la storia, giungiamo a sottolinearne, evidenziandola, una mancanza - un’assenza - la scomparsa di un importante personaggio della trama, fondamentale elemento del puzzle padre-figlia; entra in scena un lutto, a determinare ulteriormente l’incastro psicologico in cui i due si ritroveranno.

La scomparsa, la morte della madre e moglie, Prudenzia.

“La salma di Prudenzia era scomparsa alla vista.

I sagrestani raccoglievano la cera e s’affrettavano a spegnere i ceri. Le cappelle, le statue, i quadri, tutto sprofondava nell’oscurità. Due figure scure, minute, oramai alte uguali, due figure che si tenevano per mano. Come due bambini, o due amanti.

Tra la folla delle strade di Roma, non si vedevano che loro, un corpo con due teste, una testa con due sguardi”.


La messa in scena prosegue, divenendo più densa, sensuale, carnale; si confonde in una narrazione che prendendo spunto dalle vicende storiche si accinge a sollevarsi e a divenire sempre più dimensione emblematica, pur rimanendo formalmente ancorata all’ordine degli eventi biografici di Artemisia.


“In primo piano, Susanna si sottraeva, respingeva le loro avances. Le cosce, il ventre, il seno irradiavano la luce: era una creatura viva quella che si offriva agli sguardi e alle mani.

Orazio seguiva i leggeri incavi nelle pieghe della pelle, sfiorando l’inguine di quella Susanna che Artemisia aveva dipinto completamente nuda, a propria immagine.


Tutti sapevano che, dalla morte della moglie, Orazio teneva nascosta la figlia”.


All’origini dello stupro, alle sue cause, ambigue anche dal punto di vista prettamente storico (equivoca la posizione di Orazio, nei confronti della figlia e la sua apparente ingenuità, nei confronti dell’amico), un amicizia, quella di Orazio con il Tassi, in cui le figure si accavallano e l’ambiguità e la connivenza rimescola le figure, faticando a cogliere chi è uno e chi è l’altro:

“la mano e il mandante”.


Dagli atti del processo:


“ …lui mi spinse dentro e serrò la camera a chiave e dopo serrata mi buttò su la sponda del letto. Mi mise un ginocchio fra le cosce ch’io non potessi serrarle et appuntandomi il membro alla natura cominciò a spingere e lo mise dentro.

E dopo ch’ebbe fatto il fatto suo mi si levò da dosso et io vedendomi liberata dalla sua volta del tiratoio e presi un coltello…

“Ti voglio ammazzare…”


Artemisia, in seguito, per sfuggire al padre e all’ambiente in cui viveva, si allontanerà da Roma, a braccetto di un uomo che non potrà e non riuscirà ad amare:


Orazio: “…Se mi lasci, rinneghi te stessa!”

“Io, ho fatto di te una pittrice così grande che nessun maestro può starti alla pari!”


“Il 13 dicembre 1612 Artemisia Stiattesi intraprendeva il viaggio verso Firenze.

Si lasciava alle spalle suo padre. Sarebbero vissuti separati per venticinque anni. E ogni ora di assenza li avrebbe legati più disperatamente l’uno all’altra”.



Seconda parte: “La Morte della Vergine”


A Firenze lo scorrere della vita, i successi e le liti, sono dettate apparentemente dagli eventi, ma in realtà la sua traiettoria primaria è gettata e determinata dal passato; quel passato che disseminato d’eventi, traumi e nodi insoluti, imperterrito, sciama tutt’attorno al presente, determinandolo. Inducendo all’inciampo o all’arresto, quell’inconsapevolezza che segna e determina ogni nostro evento o gesto, confuso con un inquietante libero arbitrio.


Percorrendo l’arte di Artemisia se ne percepisce l’inquietudine; tracce di quel passato atroce espresso nella carnalità delle forme piene e reali, configurandola e configurandosi come la sua peculiare dimensione pittorica.

In quei tratti, in quelle pennellate Artemisia avrà modo di osservarsi nelle proiezioni sulla tela, scorgendovi, probabilmente, il congegno dell’ingannato inciampo.

“Orazio, non dipinge gli esseri o le cose così come sono, ma quali gli appaiono:

nella sua pittura il mondo visibile diventa poesia.

Non si può dire altrettanto di sua figlia!

La sua pittura è triviale! Umana, atrocemente umana!”


Tutto procede come sempre, fin quando non sopraggiunge il faticoso incontro: l’incontro con quello straniero, con lo Straniero; il desiderio Proibito. Un’immensa e anonima passione. Quell’incontro con l’impensabile, con l’impossibile proibito, le aprirà gli occhi; mostrandole il vergine mondo interiore, protetto dall’orrore; quel mondo psichico svelabile solo dalla carne; al cui centro ritroverà se stessa.


“Optiman partem elegit” – (“Ha scelto la parte migliore”)


Quell’incontro è il centro dell’intrico esistenziale, è, appunto, l’incontro con se stessa; il confronto con il suo doppio, indicibile e nello stesso tempo carico d’immagini.


“Artemisia chiuse gli occhi e si lasciò andare.

Sognava… un brivido la scosse, al ricordo delle sensazioni provate…

Lo sconosciuto si approssimava.

Come la voce, anche l’abbigliamento rivelava in lui lo straniero. Ma il personaggio non portava nessuno degli attributi dell’aristocrazia. Non era né cavaliere dell’ordine del Cristo, né cavaliere dell’ordine di San Giacomo…

Nelle cose dell’amore la loro intesa fu totale


Artemisia riandava con la memoria a quella scena che avrebbe potuto costare cara…

se qualcuno l’avesse vista o udita dalla scala…”


Quella passione fuori dal tempo è contesa tra il bene e il male; un esclusiva scelta individuale!


“Quando giunse il momento… si abbracciarono.

Poi, senza lacrime, senza scambiarsi una parola né una promessa, si separarono.

E si allontanarono. (Artemisia lentamente si volta verso di lui che oramai è lontano)

Lo straniero oltrepassò la porta. Artemisia attraversò la piazza.

Camminavano lentamente, con lui che teneva per la briglia il cavallo”.


L’immagine dell’uomo che tiene per le briglie il cavallo, mi ricorda l’uso che ne fa dell’animale, il grande regista russo Andrej Tarkovskij come simbolo di istintualità o per altro, e identico verso, all’immagine di San Giuseppe: l’Uomo che tiene tra le braccia il bambino.

In questo caso, il cavallo domato, è una metafora delle forze che intercorrono a determinare la vera natura dell’Amore. Citando un passaggio dal film “Andrej Rublèv”, di A. Tarkovskij, dove il pittore d’Icone Teofane il Greco parla al monaco Kiry; Teofane rispondendo ad una domanda sulla conoscenza, rispondendo: “la Conoscenza porta al pianto”


“Una volta fissate le zone d’ombra, quando sulla carta figurano i piani e le forme, l’esecuzione del dipinto è un gioco da bambini. La visione – l’invenzione – è quel che conta!

La pittura ed io formiamo una sola e unica persona. Se ti seguo, rinnego la mia arte, mi arrendo come tutte le donne… No, non devo temere di prendere una scelta troppo orribile

Ma come vivere senza di lui?”


“Le tornavano alla mente le lezioni di Agostino Tassi, il suo insegnamento così prezioso per padroneggiare le regole della geometria e della prospettiva…

Stava ritto sulla prua del battello, frugando la riva con lo sguardo in cerca di Artemisia. All’improvviso la scorse fra i barili e le balle sul molo, confusa nella penombra dei portici di palazzo ducale. Immobile, lo guardava sparire dalla sua vita per la seconda volta.



La Terza parte: “La Sposa”


La terza e ultima parte inizia con una descrizione d’eventi apparentemente misteriosi e indecifrabili, una strana processione dal significato chiaramente esoterico che però ha una sua ragione nel disegno drammaturgico che si vuole descrivere. Parte del testo è il seguente:


Era la notte di Venerdì santo e le due donne seguivano la processione dei monaci della chiesa della Solitaria. Questo onore di cui erano fatte segno attirava su di loro gli sguardi di tutta Napoli: erano infatti le uniche donne a far parte del corteo. Le carrozze delle grandi dame stazionavano sui due lati di via Toledo per tutta la sua lunghezza. Visi incipriata.

Pallidi fantasmi di vedove che portavano il lutto del Cristo.

I cavalieri passavano e ripassavano al galoppo davanti alle dame.

Gettando loro in grembo dolcetti a forma di mazzolini di fiori bianchi e minuscoli teschi di pasta di mandorle.


Il dialogo che segue tra madre e figlia, tra Artemisia e Prudenzia, è associabile al dialogo che avviene - per chi lo avesse visto - nello straordinario film di A. Tarkovskij, “Andrej Rublèv” tra il ragazzo e lo stesso Andrey Rubliev, nella parte finale dell’episodio della “Campana”.

Come nel dialogo tra Artemisia e la figlia si dispiega l’incontro tra la consapevolezza e l’inconsapevolezza:

Se fossi vicina a morire, se ti chiamassi… Verresti, non è vero?

Farei ciò che mi detterebbe il Signore. Rispose Prudenzia con calma.

E, dopo un attimo di silenzio, aggiunse: E farei ciò che mi ordinerebbe mio marito.

Sua madre sorrise.

Prudenzia aveva sempre appartenuto ad un altro universo!


La vostra decisione è presa, lo vedo. Sospirò Prudenzia con amarezza.

Non posso dissuadervi. Non posso tenervi con me. Almeno risparmiatevi!

Non imponetevi sacrifici troppo grandi!

Questa volta, non rinunciate agli esseri cui tenete…

Poteva confidarsi con sua figlia?

A quarantacinque anni, Artemisia contava di attraversare tutta l’Europa fino a raggiungere le fiandre, dove avrebbe incontrato quella che una volta aveva fatto da mecenate a Orazio, la regina madre di Francia, Maria de Medici…esiliata dal figlio, respinta dal genero…

La responsabilità di consegnare il dipinto al re d’Inghilterra toccava ormai ad Artemisia... aveva capito il senso della sua opera, ma non vi si era ancora assoggettata”.

(Sopraggiunge una scena totalmente al buio, per circa 7 minuti, in cui le orecchie dovranno “osservare” le voci e rumori fuori campo)

“La fronte contro il vetro.

Battellini, barche, scialuppe.

Non c’era altro modo di attraversare il fiume se escludeva il London Bridge.

La città più vasta del regno disponeva, infatti, di un unico ponte.

La porta da cui pendevano le teste infilzate dei condannati a morte”.


La fine dello spettacolo o della messa in scena, può essere solo vista, ogni parola, ogni descrizione sarebbe ora per me superflua e per certi versi inutile,

perché “da ascoltare con gli occhi e vedere con le orecchie”



Claudio Cerra


Una finestra, uno sguardo; dal video dello spettacolo

“ARTEMISIA”


La portanza delle “immagini”


La vera pittura ha sempre cercato di rappresentare l’irrappresentabile della realtà umana, dandole forma, in un atto creativo più o meno consapevole; un flusso particolare della poetica, della coscienza.

In questa logica, conoscitiva, guardiamo alla pittura di Artemisia ravvedendone l’estrema lontananza rispetto a quella del suo insegnante, il padre, dalla pittura ideale e spirituale; se ne allontana a tal punto, da rivelarsi come antipodo, divenendo per tanto un elemento, fortemente, indiziario. Forma che divenne emblematica in un approccio, appunto, conoscitivo. Irrompono gli elementi biografici e dalla pittura cade quella patina di separatezza che la divide dal luogo da cui proviene.


La pittura di Artemisia è sensuale, carnale; si contrappone a quella pittura che la rifugge, che le si oppone. Quella sensualità a cui il padre scampa intellettualmente; per poi ambirla, inconsciamente, tanto da rimanerne intrappolato, dominato.

Due “prigioni” a cui la nostra coppia di protagonisti, si avvincono. Dove la figlia, che è il punto focale della nostra prospettiva, con tutte le sue forze cercherà di allontanarsene, distinguendosi, per una personale individuazione. Un conflitto esistenziale, la stessa divisione e la stessa ricerca che conturba le nostre stesse esistenze.

Quindi, una pittura concreta, dalle figure piene, come si diceva, carnale e sensuale, come solo una donna potrebbe fare; quella sensualità che la porterà per una via - necessariamente diversa - a ricongiungersi, alla fine, al Padre; oltrepassandolo.


“Quel padre tanto odiato e amato”



(…) Ciò che il maestro le insegnò, il Molto,

quel che nelle radici preme e nei luoghi

e complicati tronchi: lo canta, essa lo canta!


(“Sonetti a Orfeo” di R.M. Rilke)



L’utilizzo, qui, di un frammento poetico tratto dalla raccolta “Sonetti a Orfeo” di

R.M. Rilke, che con la raccolta “Elegie Duinesi” dello stesso autore, hanno contribuito - inserendole tra le immagini - ad ampliare gli elementi di lettura e sceneggiatura del video, che abbiamo estrapolato dalle riprese dello spettacolo teatrale di Artemisia. Ora, divengono il pretesto per questo breve scritto, che vuole contribuire ad offrire un ulteriore sguardo, una particolare finestra, sul tema esposto e trattato nella messa in scena. Messa in scena che l’operazione video con le sue integrazioni e le sue peculiarità formali ha fissato ed esposto con nuovi e ulteriori elementi.

La versione video è realizzata attraverso il montaggio delle registrazioni effettuate durante lo spettacolo andato in scena il 17 e 18 dicembre 2016, nella sala teatrale di Carciofirossi a Treviglio.


L’evento teatrale e la rappresentazione video sono due atti estetici diversi, con leggi distinte, che a volte richiedono soluzioni differenti a problemi apparentemente identici. Una pausa teatrale, il buio scenico, ha nel teatro una potenza e una portanza che il video non può riprodurre; d’altro canto il video, come nel nostro caso, può fornire una vasta gamma di soluzioni e risorse per sopperire a tale impossibilità.


Nel video i frammenti poetici di Rilke, sono stati utilizzati oltre che per intercalare gli episodi -soddisfacendo l’esigenza di maggior continuità - soprattutto, per risaltarne “il sottosuolo” e rimarcarne l’irraccontabile già presente nella storia originale; trasportandone il tutto in una dimensione universale, oltre il soggettivo e il biografico.


Da i “Sonetti a Orfeo” e dalle “Elegie Duinesi”di R. M. Rilke:


[...]…così che una qualche fanciulla,

cui fugga l’amato, senza dentro di sé

entusiasmante l’esempio: e se come lei fossi io?

Non devono forse alla fine questi così antichi dolori

diventare fecondi per noi? Non è tempo che amando

ci liberiamo noi dell’amato restando frementi:

come la freccia, che tesa alla corda, raccolta

nello scatto per essere oltre e più di se stessa. [...]



Il vero Inizio, “il cominciamento dal color di Corvo”.

Artemisia, diviene un caro emblema per noi tutti :



[...]E tutto tacque. Ma proprio in quel tacere

avvenne un nuovo inizio, cenno e mutamento.


Animali di silenzio irruppero dal chiaro

bosco liberato, da tane e nascondigli

e si capì ch’essi non per astuzia

o per terrore in sé eran sì sommessi,


ma per l’ascolto. Ruglio, grido, bramito

parve piccolo nel loro cuore. E dove quasi

non v’era che una capanna al suo ricetto,

un anfratto dalle più scure brame ordito,


con un adito dagli stipiti sconnessi, -

tu creasti per loro un tempio nell’udito.



“Siamo ciò che furono”.

Artemisia e il suo passato. Destare l’antico a nuovi giorni:



[...]Davvero siamo fragili così angosciosamente,

come il destino vuole farci credere?

L’infanzia, così profonda, e promettente,

diviene – poi – nelle radici muta?


Ah, lo spettro dell’effimero

Attraversa come fosse un fumo

Chi in sé l’accoglie ingenuamente.[...]



Nessuno può resistere senza amore. Artemisia, cerca; nell’arte, tra gli uomini.

Nascosto, dall’impossibile anfratto, è il negato.. :



Chiamami proprio a quella tua ora

che più ostinata ti resiste:

che qui come occhio di cane implora,

ma che sempre di nuovo si desiste,


quando finalmente pensi d’afferrarla.

Ciò che così ti sfugge è più tuo.

Siamo liberi. Là fummo congedati,

dove pensammo d’essere più accolti.


Timorosi aneliamo ad un sostegno,

troppo giovani talvolta per l’antico,

e troppo antichi per ciò che non fu mai.[...]



L’Amore è estraneo. Uno Straniero, s’approssima:



Te, proprio te, ora, che conobbi come un fiore

di cui mi è ignoto il nome, voglio ancora

una volta ricordare, mostrarti ad essi, svanita,

bella nel gioco del grido insormontabile.


Fu danzatrice, lei che d’improvviso il corpo tutto

esitante irrigidì, come se il suo giovane ardore

finisse in un calco di bronzo; triste, nell’attesa. –

Ecco, da alto potere musica scese nel mutato cuore.


Il male era prossimo. Già domato dalle ombre

urgeva il sangue intenebrato, ma come per fugace

presagio rifioriva nella tua naturale primavera.


Di nuovo, ancora, interrotto di buio e di cadute,

terrestre fulgeva. Finché dopo un terribile bussare

varcò irredimibile la porta spalancata.



Oltre il Buio.

Casca, nell’oblio, l’abito dagli Oscuri:



[...]E’ facile comprendere

Gli assassini: ma questo: la morte,

la morte intera, ancora prima della vita,

contenerla con dolcezza, senza essere malvagi,

questo è indescrivibile.

[...]In nessun luogo, amata, sarà mondo, se non intimamente. La nostra

vita procede nel mutamento. E sempre più misero svanisce il di fuori.

Dove una volta c’era una durevole dimora si mostra

Un’astratta obliqua figura, così pienamente legata all’astratto

Come se abitasse ancor tutta nel cervello.

[...]Terra non è questo che vuoi: invisibile

emergere in noi? – Non è il tuo sogno,

essere una volta invisibile? – Terra! Invisibile!

Che cosa, se non metamorfosi, è il tuo urgente comando?


[...]Nella metamorfosi entra ed esci.

Qual è in te l’esperienza più dolente?

Se ti è amaro il bere, diventa vino.



ARTEMISIA, Produzione Carciofirossi:


Interpretati: Elena Valente, Matilda Morosini, Flavio D’Andrea


Musiche: Roberto Uberti


Montaggio e compositing: Alessandro Preti


Scenografie e ideazione costumi: Cerra Claudio


Realizzazione costumi: Angela Cerra, Rosalba Cerra


Regia e adattamento drammaturgico: Claudio Cerra


Claudio Cerra



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