Adattamento drammaturgico dell’omonima tragedia greca, tratta da Euripide realizzato dall’Associazione Teatrale Carciofirossi, per il Concorso Regie Teatrali: “Note di Regia”;
andato in scena al Teatro Hamlet di Roma.
Con:
Angela Derossi
Sandro Pace
Maria Luisa Cantarella
Roberta Zambelli
Coreografia: Angela De Rossi
Musica a cura di: Roberto Uberti
Regia e adattamento drammaturgico: Claudio Cerra
...
Argo, significa vaso bianco, splendente.
L'oro è rappresentativo della spiritualizzazione.
Il vello d'oro è sospeso ad un albero, simbolo di vita, e conservato da un drago,
simbolo di forze telluriche.
L'eroe deve “uccidere il drago, per poter afferrare il tesoro sublime.
PROLOGO
UOMO-OVEST
“Perché, fanciulla, hai timore di me?
Giungo solo!
Cado alle tue ginocchia per un desiderio ineluttabile,
perché senza di te non potrò superare l’orrida prova.
Darò gloria immensa al tuo nome, e così anche gli altri
eroi ti celebreranno, una volta tornati.
DONNA-EST
“Ascolta in che modo ho deciso d’aiutarti.
Ricevuti da mio padre,
i denti maledetti strappati alle fauci di un drago,
attendi l’ora che divide in due parti uguali la notte
e bagnati nella corrente perenne del fiume;
poi, da solo,
lontano da gli altri e vestito di nero,
scava una fossa
circolare, dentro la quale sgozzerai un’agnella…
MEDEA
Un viaggio funesto e vergognoso è quello che ho intrapreso,
e non credo che sfuggirò ancora per lungo tempo all'ira di mio padre:
verrà anche in terra di Grecia presto, per vendicare la morte del figlio.
Per le orribili azioni che assieme compimmo.
Già con gli occhi insonni ci sorveglia quel dragone, dall’inizio,
e da allora che tende verso di noi il collo lunghissimo;
soffia terribilmente, facendo risuonare la riva del fiume e la sconfinata foresta.
Gli incantesimi fatti allora non furono sufficienti,
ora comprendo che una forza mostruosa e invisibile intervenne a deviarli…
ed eccomi qui ora, sola e abbandonata…
Mentre lui si allunga, sono costretta a mettermi davanti ai suoi occhi e con voce soave
invocò il Sonno in aiuto, il dio supremo, che affascini la fiera;
chiamo in aiuto anche la regina notturna, infernale,
che mi sia benevola, e mi conceda l'impresa.
Nutrice
“La Notte della Ragione”
Ah, se la nave Argo non avesse fatto volo alla terra colchica. La padrona mia, Medea, mai non avrebbe navigato a Iolco, con l’animo sconvolto dall’amore per Giasone. Adesso tutto è avverso, e anche i vincoli più cari sono in crisi: ché Giasone, traditi i propri figli e la padrona mia, si gode il letto d’una principessa:
ha sposato la figlia di Creonte, e quella povera Medea disonorata, giace senza toccare cibo, preda di dolori, struggendosi di lacrime tutto il tempo.
Solo a tratti, volgendo il collo bianco, compiange con un gemito tra sé e sé suo padre, la sua terra e quella casa che abbandonò partendo a questa volta con l’uomo che le ha fatto oltraggio.
Io per lei sono piena di paura, che vada meditando chissà che. Ha un’indole violenta e a questo colpo non reggerà: com’è fatta lo so. E temo che trafigga qualche petto con la spada affilata e poi s’attiri una sventura anche maggiore. E’ tremenda: e per chi si mette in urto con lei non sarà facile ottenere la palma.
Medea
Io me ne vado: perduta la gioia della vita, non desidero che morire.
Io sono sola al mondo, senza patria, e mio marito m’oltraggia: mi rapì come una preda da un paese straniero, e qui non ho né madre, né un fratello, né un parente che sia nella sventura come un’ancora.
Si, una donna in tutto il resto è piena di paura.
Disgraziato! Tu sei venuto, eh? sei venuto, tu che ti sei fatto odiare più di tutti.
Io ti salvai e tu m’hai tradita.
E ora, dimmi, dove debbo andare? Ai capi della mia famiglia mi sono resa odiosa e per te mi sono inimicata le persone a cui meno dovevo far del male.
Io non voglio una vita fortunata che dia dolore, non voglio un benessere che mi tormenti l’anima di crucci. Non so proprio che farmene dei tuoi ospiti, e il tuo danaro non lo prendo, non me lo dare: i doni d’un malvagio non hanno mai recato giovamento.
T’invoco, Zeus, t’invoco, Dice, e te, luce del Sole.
Ti svelerò i miei disegni.
T’invoco, Zeus, t’invoco, Dice, e te, luce del Sole.
Figli miei. Invano dunque io vi crebbi.
Ora, tutti svaniti questi dolci pensieri. Voi non vedrete più, con quegli occhietti, la madre, ormai passati a un’altra forma di vita.
I figli miei li porterò fuori di questa terra.
Lo farò adesso, subito e poi partirò per non lasciare, se indugio, che un’altra mano
più ostile li uccida. E’ destino che muoiano e se devono morire, ad ammazzarli sarò
io, la madre. Tu li ucciderai…
Che può accadere ormai di più terribile?!
Come raccontare il disegno sottostante?
Il canto a cui la forma raggiunge e plasma l’immagine?
Come argomentare le intenzioni di un adattamento drammaturgico che mira ad individuarne il fuoco?!
Nella rilettura di queste pagine, dei passaggi tratti dal copione originale di Medea, da noi messa in scena, mi vengono alla mente due analogie da poter comparare al significato nascosto della tragedia euripidea. Il primo, quello che vi rivedo immediatamente, è con il tema di fondo che sta nel film di Terrence Malick “Il Nuovo Mondo” (The New World), e in seconda battuta, ma ancora più pregnante di analogie, la vicenda mitica di Teseo e Arianna, nello scontro incontro con il Minotauro; fratellastro della stessa Arianna. Tutte e tre le protagoniste femminili aiutano l’Eroe, contro la volontà dei loro padri e di tutto il Clan famigliare; tutte e tre vengono “tradite” e abbandonate, per poi assurgere, dopo il doloroso travaglio, nella maestà della Grazia Divina.
A tutte, è richiesta un’inversione intuitiva, dopo essere state rapite e aver attraversato la dimensione razionale - prefigurata dall’Eroe maschile -, da cui dovranno essere necessariamente abbandonate, per assurgere al Luogo, alla Meta; loro malgrado.
Ecco, il motivo della sofferenza e dell’apparente nefasto destino di Medea, la sua resistenza, il suo rifiuto, la sua incomprensione del disegno dell’Essere; di quel destino di Grazia, passante per quel dolore a cui è destinata. Difatti, nella Tragedia Euripidea, va notato che la Donna, sogna gli eventi dell’uccisione dei figli, per poi ripeterli uguali, esattamente uguali in quella che le apparirà come la realtà.
Pier Paolo Pasolini nella sua Medea, sottolineerà emblematicamente quel passaggio tra sogno e realtà, fondamentale per l’individuazione; tra immaginazione e azione; riproducendo, cinematograficamente, pari pari una scena che ne ripete, successivamente, un’altra identica.
Nei tre finali: Medea, volerà via su un carro divino; Arianna, diverrà sposa di Dioniso, e per quanto riguarda Pocahontas, nel film di Terrence Malik - “The New World”, anch’essa verrà abbandonata, come le altre, ma raggiungerà nel proseguo della storia, anch’essa, il senso della sua esistenza. Pocahontas in Relfe e John Smith attraverso una reciproca e “simbolica morte” raggiungeranno lo scopo delle loro vere esistenze, oltre l’atteso.
Lei, nella Grazia dell’indistinto di Madre Natura e lui, giungendo oltre i confini del Mondo conosciuto.
Claudio Cerra
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